Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
Gli incontri del 15 e 22 ottobre si avvalgono della partecipazione della Dottoressa Cristiana Cimino, psichiatra e psicoanalista di formazione freudiana e lacaniana. Sono incontri incentrati sul tema del femminile, argomento di cui la dottoressa Cimino si occupa già da diversi anni, tema molto complesso e ricco di sfaccettature, che porta con sé una serie di interrogativi e questioni. Cos’è in effetti il femminile? Un termine-grumo di caratteristiche varie? Una connotazione? Un’accezione messa come un velo ad una persona?
Esso rappresenta un tutto ed un niente, può essere visto in modo positivo o negativo e porta con sé gli strascichi della cultura, delle proibizioni, dell’educazione. Riflettere sul femminile significa incontrare una fitta e problematica trama di pensiero, una “ricerca” sviluppatasi in svariati ambiti della cultura, di cui ognuno può, nondimeno, ravvisare gli echi nella propria esperienza umana. L’immagine della donna, così come tramandata culturalmente, vede questa quasi come “donna-madonna”, “figura” sempre accogliente e calorosa, discostandosi da quella che è la sua realtà psichica e fisica, come fosse quasi “de-umanizzata”, disancorata dall’umano. Sono aspetti chiaramente riscontrabili, ad esempio, nella tradizione stilnovistica, dove la donna-angelo è un mezzo per giungere a Dio.
Riflettere sul femminile significa anche, inevitabilmente, farlo dialogare col “materno”: un dialogo che spesso, in verità, assume più i caratteri di una negazione-sublimazione del femminile nel materno. Esaltata come ponte verso Dio o condannata per la sua presunta affinità col diavolo, santa o strega, ancora oggi stenta ad essere riconosciuta (e a riconoscersi) come “donna”, fuori dai lacci delle idealizzazioni e delle svalutazioni.
Per la Dottoressa Cimino, il femminile rappresenta il “tema”, un “significante centrale”, per dirla in termini lacaniani. Freud, intorno agli anni ’30, scriveva al suo amico Ernest Jones (neurologo, psicoanalista britannico, pioniere della psicoanalisi e scrittore della biografia monumentale di Freud) che, nonostante avesse inventato la psicoanalisi, non aveva capito le donne né il loro desiderio. Freud aveva scoperto l’inconscio grazie alle donne, le donne isteriche. Mentre sosteneva di non aver capito molto del loro desiderio, lui stesso nella sua vita era stato circondato dalle donne, che avevano avuto dei ruoli importantissimi: si pensi, ad esempio, alla famosa Anna O, che suggerì a Freud la “Talking Cure”, chiedendogli di poter parlare liberamente di quel che volesse, o alla madre che, pur avendo avuto altri figli maschi, considerò sempre Freud come il suo favorito.
Freud aveva numerose sorelle ed ebbe anche tre figlie femmine, oltre che tre figli maschi: fra di essi la prediletta fu Anna, l’ultimogenita e l’unica a portare avanti il lavoro del padre. Secondo Freud, la differenza sessuale tra maschio e femmina è legata all’aspetto anatomico. Il percorso per diventare donna è tortuoso. In una configurazione edipica asimmetrica – Freud afferma che l’Edipo è asimmetrico, in quanto l’oggetto d’amore è sempre la madre, sia per il bambino che per la bambina – la bambina deve districarsi attraverso la “catastrofe” del rapporto con la madre.
Il punto freudiano è: in fondo tu, madre, non mi hai dato la cosa più preziosa: non mi hai dato il fallo. Non averlo dà luogo ad una serie di disastri: la bambina vorrebbe il pene e, dopo aver scoperto che non lo possiede neanche la madre, la incolpa per non averglielo donato. Questa presa di coscienza da parte della bambina rappresenta, per Freud, un momento particolarmente importante, in quanto segna il passaggio dalla fase di attaccamento alla madre a quella di competizione con la stessa, per ottenere l’affetto del padre. La soluzione freudiana ideale è che la donna, per divenire tale e superare il disagio dovuto alla mancata acquisizione del fallo, deve diventare madre: acquisire il fallo attraverso un dono, che è il figlio o un uomo stesso. Tutto accade su un piano fantasmatico. Fallo sì, fallo no. Sul piano dell’avere, sul piano dell’essere. A tal proposito, quindi, la donna, a livello fisiologico, ha un difetto, una mancanza, che può essere colmata con qualcosa, come beni, cultura…in modo particolare quando diventa madre. Con il proprio figlio ella possiederà il pene e allora sarà una donna.
Nel momento in cui il bambino si farà portatore del fallo, allora la donna sarà donna. Nel momento in cui lei ha, è.
L’essere donna rischia, però, di venire fagocitato dall’essere madre, tra idealizzazioni voraci e totale rimozione degli aspetti dolorosi e aggressivi implicati nella maternità. È probabile, poi, che una donna fagocitata dal suo ruolo di madre, fagociti a sua volta il figlio. Eppure, “partorire sé stessa” sembra, anche per una madre, il più alto compito a cui è chiamata…ancor di più quando le trasformazioni sociali incalzano, scombinano e propongono modi inediti di essere umani.
Tra le nemiche più acerrime di queste teorie freudiane ci fu Karen Horney, una psicoanalista femminista, la quale parlò di “invidia dell’utero”, suggerendo che non sono le donne a desiderare il pene, quanto sono piuttosto gli uomini ad invidiare l’utero, visto che questo permette di generare dei figli che nascono dal proprio corpo; ciò li spingerebbe a tentare di dominare le donne in ogni altro campo.
Anche Simone De Beauvoir, nel suo lavoro più famoso “Il secondo sesso”, ha fortemente criticato l’impostazione freudiana della libido femminile, sostenendo che non fosse altro che una copia di quella maschile. Lo psicoanalista, infatti, immagina che la donna si senta un uomo mutilato, ma in realtà la bambina non prova desiderio di fronte al pene, semmai disgusto.
Il sistema di Freud inerente il destino femminile è per De Beauvoir insufficiente e incompleto. Lacan, che può essere considerato il più grande lettore di Freud, parla invece di fallo non come organo, ma come simbolo, come “mancanza”.
Il fallo per Lacan è immaginario, non anatomico. Circa 40 anni dopo Freud, Lacan enuncia in maniera provocatoria che “la donna non esiste”. Egli radicalizza il senso della struttura. Questa concerne la posizione del soggetto rispetto all’Edipo, alla cui struttura triadica freudiana aggiunge un quarto elemento: il fallo.
Le donne, dice Lacan, non seguono un binario pre-tracciato, non è detto che accada per loro di stare nell’ambito della struttura; la donna deve inventare il proprio essere, la propria mancanza e la propria esistenza. Lacan, però, non fa coincidere la sessualità con l’anatomia, quindi si tratta di un possesso illusorio, in quanto si ha a che fare con un simbolo, non con un organo.
Allora cos’è femminile? Cos’è maschile? E cosa rende una relazione amorosa sana o patologica? Esistono relazioni sane o patologiche?
La visione del film “Il filo nascosto” ha permesso un’ulteriore riflessione su quelle che sono le dinamiche affettivo-relazionali, anche alla luce di condizioni psicologiche disfunzionali. “Il filo nascosto” di Paul Anderson racconta la storia di una maison di moda e dei proprietari, Reynolds Woodcock e la sorella Cyril. Reynolds è un affermato stilista, tra i suoi clienti annovera donne dell’alta borghesia e dell’aristocrazia europea.
Scapolo impenitente, usa le donne come muse ispiratrici per poi “gettarle via” come oggetti obsoleti, quando non più necessarie alle sue esigenze artistiche. Ma l’incontro con Alma cambia gradualmente le cose; per via del suo amore, Alma si ribella al carattere profondamente intriso di narcisismo di Reynolds, che fagocita le sue muse una dopo l’altra. Una delle scene del film particolarmente metaforiche vede Reynolds prendere le misure del corpo di Alma; egli inconsciamente non vede la donna in quanto tale, nella sua totalità, ma soltanto in funzione di ciò che gli interessa. Sorprendentemente, la barriera emotiva dello stilista si infrange: Alma riesce a rompere quel rispecchiamento che rimandava a Reynolds l’immagine di sé stesso. L’incontro, descritto dal regista con grande maestria, sembra sottolineare la differenza fra la relazione narcisistica e la relazione oggettuale.
Con tutta la buona volontà, Reynolds non riesce ad amarla come vorrebbe, non è abituato a relazionarsi con l’oggetto, ma solo con sé. L’equilibrio di questo amore malsano poggerà tutto sui funghi velenosi, che Alma gli darà da mangiare “per averlo inerme, tutto per sé”, e Reynolds deciderà di farsi drogare, per non rinunciare a lei. Il filo nascosto che lega Woodcock e Alma è dunque il veleno. Ogni volta in cui necessita di sentirsi amata, Alma cucina per Woodcock un piatto di funghi tossici, per debilitarlo e renderlo capace di provare sentimenti. Sempre accondiscendente, Reynolds permette che sia questa la soluzione per trovare la “giusta” armonia tra loro. Tuttavia, si tratta di una relazione tossica al pari di una relazione perversa.
Un passaggio simile compare nel film “La mia droga si chiama Julie”, del regista francese François Truffaut. Il protagonista del film di Truffaut, interpretato da Jean Paul Belmondo, è travolto a tal punto dal sentimento per la sua amata, Catherine Deneuve, da accettare come prova d’amore che lei gli somministri un veleno per topi. A differenza dell’intossicazione passeggera di Woodcock, necessaria assiduamente per bilanciare la coppia, non ci è dato sapere se Truffaut intenda l’avvelenamento come un’ultima testimonianza d’amore. Siamo ancora nell’ambito della relazione perversa.
Woodcock e Alma possono definirsi una coppia affetta da dipendenza affettiva tossica. In psicologia, tra le varie tipologie di relazione tossica, ne esiste una in cui una personalità narcisista utilizza la seduzione e/o la dominazione per controllare il partner dipendente, facendo in modo che niente interferisca con il proprio benessere.
Solo quando si trova di fronte alla minaccia di un rifiuto o un abbandono (es. Woodcock razionale), il narcisista cerca con ogni mezzo di ottenere un rispecchiamento: o subendo o sostituendo l’oggetto con un altro.
Paul Thomas Anderson lascia anche intendere che ogni filo, per quanto ben cucito, rischia di strapparsi. Se mai dovesse spezzarsi il filo dell’amore, nessun sarto, neanche un maestro come Woodcock, potrebbe porvi rimedio. I tratti narcisistici che si notano nel protagonista Reynolds potrebbero rimandare al rapporto con la madre, in quanto lui viene percepito come “oggetto” di desiderio, in grado di soddisfare i bisogni della madre. Questo “oggetto” diviene maggiormente visibile quando si lascia accudire da Alma e, per certi versi, prima ancora, dalla sorella. Inoltre, il rispecchiamento che Reynolds ha con le sue “muse” rimanda al fatto che queste rappresentano l’immagine che lui vuole ottenere del suo essere affascinante, di talento.
Il sarto Reynolds è un po’ come il padre della psicoanalisi Freud, entrambi circondati sin da sempre, nelle loro vite, solo da donne. Reynolds ha idolatrato la madre, cucendole il suo abito da sposa: ella, scomparsa prematuramente, sarà una costante nella vita del figlio, tanto che la porterà con sé cucendone all’interno della propria giacca una ciocca di capelli, o apparendogli come un’allucinazione in seguito al primo avvelenamento da funghi da parte di Alma. Reynolds sostituirà, in seguito, la figura materna con la sorella Cyril, che possiede un aspetto apparentemente protettivo, ma al tempo stesso distruttivo.
Da questi due Incontri sul Femminile sono emerse delle questioni e riflessioni che rimandano al concetto di femminile come una struttura politica, culturale, ma anche e soprattutto personale, che appartiene ad ogni individuo; una “struttura” dalla quale ci vuole coraggio per uscire e crearne una propria. Nella relazione con l’altro, fatta di due unicità, si nota come la posizione femminile a volte scardini e stravolga la relazione con l’altro, nel tentativo di instaurare un equilibrio e creare un legame.
Un femminile molto diverso lo si ritrova in Madame Bovary, dove c’è ancora un conflitto con quello che la protagonista vorrebbe e quello che è impossibilitata ad avere, a causa delle proibizioni del tempo, come lei stessa afferma: «Ma una donna ha continui impedimenti. A un tempo inerte e cedevole, ha contro di sé le debolezze della carne e la sottomissione alle leggi. La sua volontà, come il velo del suo cappello tenuto da un cordoncino, palpita a tutti i venti, c’è sempre un desiderio che trascina, e una convenienza che trattiene» (da Madame Bovary di Gustave Flaubert).
Si potrebbe far riferimento anche ad Anna Karenina, la quale cerca di raggiungere la propria felicità, schiacciata dalla “colpa” dell’adulterio, ma che, nonostante tutto, sfida la società e la borghesia di quel tempo.
L’elemento creativo dell’identità, sollecitato dal conflitto con l’Altro, quando non risucchiato e rabbonito nel conformismo di turno, acceso nel suo slancio desiderante, è ciò che, forse, dobbiamo più di tutto riconoscere e promuovere, tenendo a bada, anche nella vita professionale, le tentazioni schematizzanti. La mancanza strutturale che ci affligge tutti è anche garanzia di quella “tensione di senso” attraverso la quale possiamo anche permetterci di amare.
E possono permettersi di amare i protagonisti del film “Il filo nascosto” (Anderson, 2017)? La parabola che trasforma Alma da “specchio delle brame” di Reynolds (“preda femminile” fiutata ai margini di un’esistenza straordinariamente mono-tona e creativa insieme) a colei che dosa con mostruosa sapienza morte e vita, e Reynolds da artista iper-controllato a partner ciclicamente inerme, lascia aperti molti interrogativi. Sicuramente Alma interrompe la serialità esistenziale di Reynolds (e della sorella), e l’incontro con l’Altro ci sembra sempre, in qualche modo, foriero di una rottura, di uno “sfilacciamento” problematico e fertile del quotidiano, ma il modo perverso in cui lo fa sembra far ristagnare la possibilità creatrice del loro rapporto in un ulteriore, opposto e complementare, schema di controllo, perverso.
Eppure, si è tentati di dire che questa miracolosa morte reversibile, che Lei apparecchia per Lui e Lui accoglie, quest’altalena di controllo-perdita di controllo, forza-fragilità tra i due partners abbia una sua inquietante “funzionalità”: in fondo sono una “bella coppia”!
Come le tante che affollano le cronache… Fino a prova contraria.
Laura Bellamacina, Vanessa Capria, Emanuela Centorrino, Liliana Chiarini, Maria Rosa Irrera, Davide Carmelo Magistro, Fabiola Merlino
BIBLIOGRAFIA
• Flaubert, G., Madame Bovary, Ed. Classici Feltrinelli, Milano 1994;
• Freud, S., Tre saggi sulla teoria sessuale, Bollati Boringhieri, Torino 2012.
FILMOGRAFIA
• La Siréne du Mississipi (La mia droga si chiama Julie), di François Truffaut, Les Films du Carrosse, Francia 1969, con Jean-Paul Belmondo e Catherine Denueve;
• Phantom Thread (Il filo nascosto), di Paul Thomas Anderson, Universal Pictures, USA e Re-gno Unito 2017, con Daniel Day-Lewis e Vicky Krieps.