Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
“Su questo c’è un fico grande,
ricco di foglie, e sotto Cariddi
gloriosamente l’acqua livida assorbe.
Tre volte al giorno la vomita e
tre la riassorbe paurosamente”
(Odissea, XII)
In coincidenza del mio traguardo professionale dell’associatura, nella mia vita personale è avvenuto un passaggio che mi ha traghettato, attraverso lo stretto di Messina. Viaggiai da Messina, mia città natale a Reggio Calabria, luogo in cui vivo e lavoro da otto anni.
Lo Stretto, luogo a me caro e che quotidianamente scorgo dalle finestre del mio studio, è stato d’ispirazione per il mio scritto.
In particolare, il ricordo del mito di Scilla e Cariddi, fu ad un certo punto illuminante per orientarmi nel mio lavoro di analista, fra l’altro unica in questa città. Non parlerò di nessun paziente in particolare, ma di tanti che in questi anni si sono succeduti nel mio studio.
L’analisi di questi pazienti: giovani, adulti, colti o poco scolarizzati, aveva paradossalmente un andamento comune. Il tempo delle sedute mi sembrava rallentato, dilatato, appesantito.
Mi portai questa sensazione di “ incompletezza” che prese sempre più spazio nella mia mente. Ad aiutarmi fu proprio un elemento architettonico da cui fui molto colpita appena trasferita in città. Mi scontrai con l’immagine, soprattutto nelle periferie, di una serie di case, palazzi “non finiti”. È consuetudine costruire le case e non completarle e lasciare il cemento ed i mattoni “a vista”, seppur dentro la casa è abitata. Fu un’ immagine cruenta, a cui loro però sembrano assuefatti. Pensai ad un voler denunciare un tempo che si è dovuto fermare e che ha bloccato l’evoluzione di questa terra e di questa gente, come se fossero paralizzati, in una condizione senza tempo. Era un elemento traumatico, non elaborato, che però nella cornice del silenzio, è esposto, gridato e che chiede di essere visto.
L’elemento della vitalità nascosta e silenziosa mi fece pensare alla paura di mostrarsi vivi. Mi sembrò che l’immobilità fosse una condizione necessaria alla vita, un po’ come quel gioco da bambini in cui vince chi resta immobile (“Un due tre: stella”). Pensai ai primi lavori di Freud sulle paralisi isteriche e quanto proprio quel sintomo motorio lo indusse a ricercare l’elemento traumatico. Bion scrisse “…un bambino può tacere perché ha paura delle sue urla…”. Mi sembrò che in qualche modo avessero scelto il silenzio come salvaguardia e come richiamo allo stesso tempo.
Ma l’immobilità apparente del tempo delle sedute mi fece pensare che fosse l’unica scelta possibile.
L’immobilità ed il nascondimento sono due elementi preponderanti nel codice “’ndranghetista” . La magistratura sottolineò come fosse una “qualità” il fatto che per decenni la ‘ndrangheta riuscì grazie al nascondimento ed al silenzio a scalare i vertici del male rispetto ad altre associazioni.
Altro aspetto che, da questo vertice, mi apparve più chiaro fu dar senso al rapporto con la loro terra e con le loro origini che spesso viene negato e rifiutato. Emerse una difficoltà a sentirsi appartenenti a questi luoghi di straordinaria bellezza, che spesso vengono maltrattati e abbandonati. Siti archeologici dimenticati e addirittura misconosciuti e lasciati all’incuria. L’odio nei confronti di una terra matrigna che non li ha saputi difendere e dalla quale si sentono continuamente minacciati.
Freud in “Psicologia delle masse ed analisi dell’Io” scrive che “un lutto non elaborato impedisce la prima forma d’amore che è l’identificazione causando disgregazione “. Mi sembrò fossero portatori di un trauma che avesse impedito l’identificazione con la loro Terra, lasciando solo lo spazio per l’odio e la violenza come unica possibilità di sopravvivenza.
Bollas nel capitolo “L’origine del male” scrive:
Nel “Paradiso Perduto” Milton incarna la struttura del male nel personaggio di Satana che ha sperimentato la perdita di un luogo paradisiaco e l’annullamento della propria posizione. Strappato dalle spire del processo nutritivo il soggetto satanico subisce una ferita profonda. Il bene ora gli pare come un’offerta presentata dall’invidia. La perdita dell’amore e la catastrofica deposizione favoriscono l’odio per la vita. Saturo di “invidia” si trasforma in identificazione con le forze del male. Percepivo così quelle “presenze” vittime del loro stesso odio e carnefici della loro terra, ma non era ancora il tempo di lavorare sulla loro complicità, era il tempo dell’ascolto delle vittime.
Le sedute procedevano, apparentemente su un mare calmo, ma poi ad un certo punto “Cariddi” emergeva dai flutti, ingoiando e sputando:
“Mio padre era buono ma parlava troppo. Lo hanno ucciso quando era sul trattore, davanti a mio fratello.”
“Mio fratello doveva fare 18 anni. Quella mattina lo avevano chiamato per fare il muratore. Non è più tornato”.
“Mio figlio passava per caso da quel bar, quando gli hanno sparato in faccia“
Fu questa l’emergenza con cui mi dovetti confrontare. Eravamo transitati dal silenzio alla restituzione cruenta della verità.
Mi fu utile pensare nel tempo al valore comunicativo di quel silenzio che doveva essere declinato.
Non era semplicemente omertà, vergogna, paura, ma lo sentii come unica possibilità di rappresentare l’indicibile; così come Primo Levi in “ Se questo è un uomo” ci ha lasciato:
“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa. La demolizione di un uomo”
Era l’unico luogo in cui collocare quel dolore perché la mente non ha ancora parole per rappresentarlo. Ma che in quel silenzio assume dignità e forza.
Francesco Siracusano, nello scritto: “Il messaggio nascosto nell’oblio”, ricorda gli incontri di Ulisse con l’oblio.
Oblio, luogo non luogo, in cui l’uomo “conserva” ciò che non vuole rendere accessibile alla memoria. Luogo in cui il soggetto si libera dal potere possessivo della memoria. La categoria temporale blocca il fatto nella memoria e lo possiede, l’oblio lo libera e lo rende permeabile all’emozionalità. L’oblio non ha rapporto con la memoria, ma con l’emozione e recuperandolo porta con sé non semplicemente il fatto ma l’insieme emozionale a cui appartiene. Viceversa, la memoria ha in sé elementi deformanti perché il tempo limita per definizione.
Nell’oblio, invece, si conserva in modo assoluto il fatto.
Fu proprio questo ad orientarmi, stavo scontrandomi con la potenza dell’oblio? Percepii la potenza dei fatti che venivano tirati fuori da una parte della loro mente e restituiti, come vomitati.
Mi sembrò che l’analisi avesse permesso la possibilità di entrare in contatto con i fatti. Non parlerò di “verità” ancora, categoria della mente che mi sembrava non fosse accessibile a loro.
Chi ero io lì?
Che ruolo adesso avrei dovuto svolgere?
L’immobilità prima intuita nell’atmosfera delle sedute, adesso mi arrivò addosso paralizzandomi. Mi chiedevo continuamente cosa avrei dovuto fare con quei fatti. Sentire la paralisi mi aiutò fino in fondo a capire cosa stesse accadendo in loro. Ma quel paralizzarmi fu vitale.
Bollas nel capitolo “La funzione della storia”: “…Quando è presente il fatto reale, non sappiamo come pensarlo. Qualcosa di impensabile aleggia intorno ai fatti della vita… Winnicott direbbe che questa perdita momentanea di pensiero è necessaria.”
Lo scontro con il fatto lo sentì come lo scontro con l’oblio. Pensai alla potenza di quei silenzi, di quel “non avere parole”.
Come se l’analisi avesse permesso uno straripamento dell’oblio che insieme al fatto portava con sé il dolore di quelle atrocità. Ma era un dolore sentito da me e non ancora intercettato in loro.Nella loro mente il fatto era separato dall’affetto.
Circe, maga dell’oblio, aveva permesso che Ulisse recuperasse la memoria.
Ma questo come era accaduto? E che rapporti hanno l’oblio e la memoria?
La mente dell’analista, che non “deve avere memoria”, deve diventare il contenitore della memoria del paziente?
Siracusano “…L’analista è un po’ come Tiresia quando esorcizza la memoria dei fantasmi e tenta la ricostruzione del presente…”.
Mi sembrò che l’analisi e proprio il ritmo del setting fosse divenuto il “richiamo sonoro” dei fatti nascosti nell’oblio.
A quel punto, la mente dell’analista, deve far spazio prima per contenere il “fatto” e ci vorrà tempo. Accettare l’angoscia del non sapere e del non aver parole, fu utile per creare quello spazio all’interno delle sedute.
Bollas: “Il reale fa la sua apparizione in analisi, non come elaborazione, ma all’inizio come fenomeno “muto”… “Il semplice fatto è” “. E pensai, ancor di più, quanto il pensare a quell’ ”immobilità” e a quel “silenzio” fosse stato propedeutico a questa nuova fase. Da questo vertice, mi fu più chiaro pensare all’ “angoscia del tempo” di cui erano portatori. Era un eterno presente che non può avere legami né con il passato né tantomeno con il futuro.
Altro elemento a cui dovetti pensare fu che ad un certo punto, le loro individualità furono confuse nella mia mente.Nell’oblio si erano uniti, massificati e nascosti.
Kaes nel libro: “La trasmissione della vita psichica tra generazione” dice di una “ identificazione segreta” con sequenze di fantasie non coscienti, non riconosciute e non transitabili che passano da generazione in generazione fino ad esprimere tutta la loro patogenicità”.
Tale trasmissione si organizza partendo non soltanto da ciò che manca, ma da ciò che non è avvenuto, da ciò che è assenza d’iscrizione e di rappresentazione e da ciò che sulle modalità d’incriptamento, è in stasi senza essere iscritto (da Introduzione- Antonino Ferro e Anna Mergagni).
La lettura di questo libro fu illuminante per capire ciò che mi accadeva in seduta. Il paziente era preceduto dal “gruppo” ed il sintomo chiedeva “giustizia” per loro. Maria: “ Mio marito mi fa venire qui perché dice che in casa non faccio più niente,
con questa depressione”
Analista: “ Penso a quanto, grazie a questa depressione, lei abbia potuto trovare uno spazio per raccontare il suo dolore“
Se potessi dare un ritmo alle fasi attraversate con questi pazienti lo penserei in tre tempi.
L’analisi aveva permesso un primo traghettamento dall’oblio alla memoria dei fatti. E dentro i vortici di Cariddi entra in un altro tempo.
Fui molto colpita dall’uso del linguaggio, che era crudo e spietato.
“I morti venivano restituiti con tutta la loro violenza”.
L’uso del vero, senza sconti, mi sembrò l’unico modo che avessero per poter raccontare quel dolore. Sembrava quasi un racconto impersonale. I morti, il sangue, che nel tempo interpretai come un dono di autenticità a se stessi e a me.
“Questo è”… “Così è andata” . Era un lascito gravoso come di colui che inerte e stordito dal dolore si consegna.
Un altro aspetto che mi tornò utile pensare, fu il mio sentirmi testimone e depositario della verità. Io dovevo avere “occhi per vedere” e “orecchie per sentire”. E la mia funzione di testimone poteva far diventare quei fatti finalmente “veri”. Il detto diventa vero.
Pensai all’analista testimone delle verità, che svolge una funzione aggregante per la mente. Restituisce il senso della realtà e loro possono avvicinarsi alla loro storia fidandosi delle loro parole e dei loro ricordi.
Sentii il bisogno di leggere a ritroso alcune delle loro sedute per recuperare dentro me le loro storie: finalmente stavano riprendendo corpo anche nella mia mente.
Era il momento di farli avvicinare alla loro complicità con il male, che li ricollocava continuamente come vittime.
La complicità con il male, quello che i magistrati chiamano “zona grigia”.
Qual è il ruolo dell’analista in luoghi così complicati?
A volte senti la difficoltà di fare un lavoro controcorrente.
L’analisi che è ricerca di autenticità, verità interna, alleanza con il “bene”, come può “sopravvivere”?
Ma rileggendo alcune sedute, pensai come a loro modo volessero mettermi alla prova per capire quanto fossi pronta ad ascoltare le loro parole.
In una seduta di qualche anno prima, Maria mi raccontò minuziosamente il “rito annuale” dell’uccisione del maiale per la preparazione degli insaccati. Rituale a cui ben presto il figlioletto fu esposto dal padre e dal nonno: “Così si abitua…”. Probabilmente lo stava dicendo anche a me che avrei dovuto abituarmi a quella vista così cruenta.
E ancora, i racconti di altri pazienti che descrivevano i pellegrinaggi al santuario della Madonna di Polsi (luogo sacro alla ‘ndrangheta in cui ogni anno avviene il summit di tutte le cosche) dove, fino a qualche anno fa, venivano esposte lungo il tragitto, le capre sgozzate e sanguinanti.
Fu un passaggio duro e necessario per imparare a trovare un linguaggio condiviso su cui poter costruire il lavoro insieme. Ebbi la sensazione, come dopo un rito iniziatico, di essere parte di loro.
I greci, loro antenati, lasciarono uno dei riti più straordinari, che ancora oggi al sud, viene rappresentato. Il morto deve essere esposto, pregato e pianto dalla comunità. “Vederlo” aiuta a dare avvio alla separazione. I morti non sepolti, viceversa, restano nel regno dei vivi, disturbandoli e spaventandoli.
Si poteva dare dunque sepoltura al morto. Diedi questo significato alle sedute che adesso scandivano un altro tempo, il tempo della pensabilità.
L’elemento di un tempo cambiato e scandito in qualche modo mi rassicurò che Cariddi era stata superata. L’introduzione del tempo poteva dare l’avvio alla “risistemazione dei pezzi”
I pazienti cominciavano a recuperare la “funzione motoria”.
Concludo il mio scritto con una frase di Maria che proprio qualche mese fa mi disse raccontandomi il funerale del padre:
“Gli assassini di mio padre furono i primi a farci le condoglianze. Si ricordi, sono i primi che vengono al lutto”
Il “si ricordi” che mi diede i brividi però sancì l’idea che era il tempo della verità e che le sedute di Maria, come di tanti altri, avevano permesso di ricongiungersi con la loro memoria e con il loro dolore. Ma il “si ricordi” lo sentii come il segnale di “essere parte” di loro. Avevamo costruito un linguaggio e una memoria condivisa
Pensai al fenomeno della “Fata Morgana” che ogni tanto si può scorgere sullo Stretto di Messina, in cui la costa siciliana e quella calabrese sembrano più vicine.
BIBLIOGRAFIA
Freud S. (1921): “Psicologia delle masse e analisi dell’Io. Opere vol. 9”
Christopher Bollas:Cracking-up:” La funzione della storia”; “L’origine del male”(Raffaello Cortina Editore, 1995)
Francesco Siracusano: “La paura del movimento (un aspetto del narcisismo)”(Estratto da Narcisismo: Nomos , Trasgressione; Teda Edizioni, 1989)
“Il messaggio nascosto dell’oblio” (Rivista di Psicoanalisi, 1982)
Kaes: “Trasmissione della vita psichica tra generazioni”(Ed. Borla, 1993)
Bice Mortara Caravelli: “Silenzi d’autore”(Editori Laterza, 2015)
Il primo gruppo di lavoro del Centro dello Stretto si avvia attorno al lavoro di Sandra Isgrò che, descrivendo alcuni casi clinici, parla della realtà calabrese e della difficile convivenza con una mentalità mafiosa che diventa cultura tramandata, con un regolamento complesso e che, nel tempo, assume persino una cifra inconscia. L’analista che si trova a lavorare in questa realtà ne avverte le peculiarità e sebbene Scilla e Cariddi siano terre vicine, sono segnate da precipuità e singolarità. Si tratta di tracce traumatiche indelebili che caratterizzano la vita conscia e inconscia delle persone, delle famiglie e di intere generazioni.
Sandra Isgrò richiama l’attenzione sia sugli effetti della contaminazione mafiosa insediatasi nella realtà calabrese sia sul lavoro dell’analista inserito in tale realtà.
Non si ritenga dunque qualunquistico affermare che l’analista che lavora in “terra di Calabria” faccia un lavoro “diverso” di qualunque altro analista, nella misura in cui dovrà confrontarsi – e tenere conto – con talune condizioni che coinvolgono il setting e il transfert e ostacolano il processo trasformativo dell’analisi.
La condizione mafiosa sembra funzionare come una sorta di “paralisi”, di “blocco della mente” e collocare il pensiero tra l’oblio e il controllo.
I temi che emergono sono : il trauma, la memoria, l’oblio, il peso delle parole e la difficoltà ad usarle per comunicare, il tempo, i risvolti evacuativi.
Questi sono collegati tra di loro laddove il tempo, come in ogni condizione traumatica, pare fermarsi, essere un “tempo immobile”, “pesante” poichè contiene elementi raccolti in un “oblio” che, forse, conforta ma che al contempo non risolve. Gli abusi mafiosi, transgenerazionalmente trasmessi, impediscono alla memoria di serbare ricordi utili e di esprimersi con le parole. Manca la tenerezza e l’accudimento. Subentra la paura o il distacco emotivo, entrambe inducono nel soggetto acriticità e accettazione passiva, atteggiamenti mentali collusivi quando non inconsciamente supportivi il sistema mafioso.
Per esprimere con un immagine questa complessità si pensa ai palazzi in costruzione nella zona calabrese lasciati “in finiti”, non completati, senza l’intonaco e coi mattoni a vista. Una costruzione che appare appunto infinita, mai finita, ma anche degradata, trascurata, come i pensieri che non possono godere di una sana elaborazione e quindi diventano lutti irrisolti.
L’aspetto mafioso assume per molti la forma di una sopraffazione che porta alla resa, alla inermità. Quando succede si verifica allora che non “occorrono aguzzini”, l’individuo assume un atteggiamento mentale che lo conduce, da solo, alla morte. Morte fisica (non rara nei casi di omicidio per mafia) e mentale (se possibile ancora più insidiosa poiché immobilizza l’evolversi della persona stessa ripiegata nell’assenza di pensiero.)