Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
Il film Le sorelle Macaluso, diretto e co-sceneggiato dalla regista Emma Dante, è uscito in Italia a settembre del 2020. Ha partecipato alla 77^ mostra del cinema di Venezia ed ha ricevuto numerosi riconoscimenti.
La piece teatrale a cui il film si ispira, pur differenziandosi, nel 2014 è stata premiata con due UBU, i massimi riconoscimenti in ambito teatrale, uno come migliore regia e l’altro come migliore spettacolo dell’anno. Lo spettacolo teatrale ha girato i teatri di tutta l’Europa.
Ho visto il film durante uno dei periodi di lockdown per la pandemia.
Mi ha subito colpito il contrasto tra gli ambienti interni ed esterni.
Un fuori accecante di luce, abbagliante, e un dentro in penombra, ingombro di mobili, oggetti, su cui le immagini si soffermano. La prima scena del film si apre proprio sul buio e sul tentativo delle protagoniste di aprire un foro per osservare l’esterno. Le colombe bianche, che le sorelle allevano nella terrazza, sono utilizzate per le cerimonie nuziali e rappresentano la fonte di sopravvivenza familiare: vanno in affitto in gabbie, su richiesta dell’organizzatore degli eventi, e poi tornano da sole, segnando un percorso ciclico che attraversa lo spazio. Il terrazzo con le colombe, in cui la sorella più piccola si muove con grazia e delicatezza appare da subito un luogo speciale, dove c’è lievità, contatto col cielo.
Le cinque sorelle, a inizio film, sembrano rodate in una routine rassicurante, seppure insolita per delle ragazze tanto giovani. Hanno compiti precisi, un’organizzazione che fa intuire una storia pregressa che però non viene raccontata. Mi ha colpito la sintesi efficace letta in una recensione del film: “Maria danza, Pinuccia ama, Lia legge, Katia organizza e Antonella osserva”.
Sono una famiglia o quel che è rimasto di una famiglia, con la quotidianità di chi si deve dare da fare per vivere, raccontata con immagini vivide e tenere: la contrattazione per le colombe, i litigi per le incombenze da assolvere, la sorella che non si vuole svegliare, quella che è sempre affamata, i piatti buoni del servizio, i preparativi per uscire di casa, con Pinuccia che si mette il rossetto sotto lo sguardo ammirato della più piccola, Antonella, che le dice “Sei bellissima”.
Nella prima parte del film siamo negli anni ’90, e quello che osserviamo, i gesti delle protagoniste, i loro movimenti, la loro andatura, li renderanno poi riconoscibili nel corso del tempo futuro. La casa, un ultimo piano alla periferia di Palermo, con sopra uno spazio per le colombe, è protagonista quanto loro, direi un vero palcoscenico, nel quale tanto accade. La città, i suoi rumori, appaiono in questa fase del film, distanti. Nella casa i mobili, i piatti, gli oggetti, appartenenti a generazioni sovrapposte, sembrano possedere un collante, un riferimento tra loro, una storia, dei rituali consolidati dai quali lo spettatore è escluso, quasi a rimarcare un’intimità che tale deve rimanere. Mi sono ritrovata nel corso della visione a cercare di riconoscere e riassegnare gesti, luoghi, volti.
Poi arriva la giornata a mare. C’è una nota malinconica lungo la strada che le conduce al mare, risuonano le note di “Inverno” di De Andrè con la voce di Franco Battiato.
Il percorso verso il mare, l’incedere delle sorelle verso lo spazio aperto, racconta già molto di loro, Lia raccoglie degli oggetti, Maria danza per le sorelle. Si intrecciano, mi sembra, in un’intensità crescente, attimi che rimandano ai sogni di ciascuna. Le canzoni di sottofondo accompagnano l’atmosfera festosa, di apertura alla vita, “Sognare, sognare” di Gerardina Trovato, ballano le sorelle in acqua, coinvolgendo altre persone e creando un momento quasi surreale, di sospensione dalla realtà. Sono tutte insieme, ma all’aperto, lontane dalla casa, ciascuna insegue un proprio desiderio, la propria libertà. Nello stabilimento balneare Charleston, dove si introducono di soppiatto, un luogo presumibilmente carico di ricordi per la famiglia, ciascuna può finalmente ritagliarsi un proprio spazio, tornare ad una spensieratezza che poco solitamente le abita. Maria raggiuge nella sala del cinema all’aperto una ragazza, con la quale dopo un sensuale avvicinamento, si bacia e si dà appuntamento per il prossimo film, “Ritorno al futuro”, e al suo futuro di danzatrice. Pinuccia spera di attirare l’attenzione di un ragazzo sulla spiaggia. Lia, Katia e Antonella, più piccole, giocano in acqua. C’è quasi una prefigurazione di un possibile futuro in cui Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella saranno adulte, avranno storie diverse, schemi relazionali tra loro nuovi, seguiranno strade autonome.
A questo punto il tempo si ferma. Una disgrazia, ripetuta con frammenti di scene diverse, da prospettive sempre nuove, interrompe il corso delle loro vite. C’è tuttavia un pudore che non svela troppo.
Da questo momento in poi ho avuto l’impressione che altri elementi, in modo insidioso e continuo, attraversino le trame del racconto. E il rimando alle esistenze spezzate, attraversate dal lutto, dal trauma, è reso in modo struggente, drammatico, poetico, ineluttabile. Qui l’umanità può trovare un accordo, un’affinità dolorosa. Una rappresentazione che risuona dei nostri dolori, di quelli di ognuno; qualcosa di familiare ed estraniante, perturbante quindi, che ci accomuna tutti. Una valenza mitica direi. Il film si arricchisce di una potenza evocativa forte, drammatica, ancora più ricca di simboli.
Il tempo corre in avanti. Lia adulta torna verso casa. Ha l’aria provata, sgangherata da malata psichiatrica. Maria adulta, sciupata, fa l’inserviente in un centro medico veterinario. Nella scena cruda, in cui assistiamo all’estrazione chirurgica del cuore da un daino, si controbilancia l’interesse affettuoso della Dottoressa per le condizioni di salute di Maria. Una donna che la osserva, che mostra di avere cura di lei, in un luogo asettico di morte, di esistenze ridotte in pezzi anatomici.
Le sorelle si ritrovano in casa ancora insieme, invitate da Maria per una cena. Katia è l’unica sposata, sembra non proprio felicemente, ed ha un figlio. Maria, Pinuccia e Lia abitano ancora insieme. Per un attimo si ritrovano nei loro gesti consueti, anche affettuosi, nella conoscenza reciproca dei loro gusti, quella sorellanza che le lega, nel mangiare nei piatti buoni, come nelle grandi occasioni. Ma basta poco perché si creino tensioni, litigi. Ciascuna rinfaccia all’altra qualcosa, sono tutte immobilizzate, prigioniere, seppure in modi differenti. La responsabilità della disgrazia, che sembra accaduta ieri, grava su loro, diventa un peso enorme per ciascuna, anima litigi, crea tensioni; Lia e Pinuccia sembrano ingaggiate in un legame simbiotico in cui l’odio le lega in modo morboso. Viene la voglia di offrire loro una consolazione, vera, autentica, che non le lasci sole e smarrite, che arrivi dall’esterno, dal mondo degli adulti, che le sollevi da quell’affanno. “Stavamo giocando, eravamo piccole”, dice Katia a Pinuccia. Aleggia la colpa per quella giornata al mare in cui erano per un attimo tornate bambine, ragazze. Un attimo di leggerezza. Senza scampo.
Per tutta la vita quel momento le accompagnerà. Come l’immagine di Antonella che comparirà, in vari momenti, a ciascuna nel corso del tempo, che regala dolcezza e al contempo non permette di dimenticare. Ci sarà per le sorelle un prima e un dopo nelle loro esistenze che già faticosamente avevano cercato un equilibrio. Nel lutto il tempo si ferma, diventa ciclico, come il volo delle colombe. Le canzoni diventano a tratti quasi una sottolineatura ossessiva, come il carillon grottesco da clown con le note di Satie, o Meravigliosa creatura di Gianna Nannini.
Progressivamente la vita ruota solo intorno ad un interno, che resta immutato negli anni. Gli oggetti, i mobili si usurano, nessuno sembra poterli riparare. Maria alla cena annuncia di avere il cancro. Nell’espressione dell’attrice, intensa, dolorosa, che è bravissima come tutte le altre, c’è quasi lo sconcerto, l’incredulità per una vita che ha molto promesso e poco mantenuto. I progetti sono rimasti per sempre irrealizzati, come il tutù di danza che Maria indossa e che assume una valenza quasi macabra, di un tradimento esistenziale, mentre divora avidamente i pasticcini, quasi a succhiarne la vita. Le sorelle in realtà si accorgono a stento di ciò che l’altra vive, il presente sembra non contare, il giudizio sull’altra resta quello che ciascuna aveva nel passato, non evolve. Forse mancherà nel loro insieme familiare, la funzione di qualcuna, ma non la persona, che resta in parte sconosciuta.
Restano distanti e attaccate in una relazione affettiva dolorosa e non risolta, dove ciascuna va avanti come è possibile. Il loro legame le aiuta e le avvelena al contempo. Sembra che la somma dei lutti e dei dolori che le ha attraversate diventi insostenibile, per ciascuna, e per loro insieme. La casa, con la sua decadenza resta in primo piano, non si può riparare e non si può vendere. Gli uomini che compaiono nel film restano sullo sfondo, incapaci di incidere, di imprimere un corso diverso agli eventi. La famiglia resta chiusa in una endogamia paralizzante.
Lia, ormai anziana, rimasta l’ultima ad occupare la casa, la cui terrazza non ospita più le colombe, si prepara a morire, accompagnata dai suoi libri letti, nell’immaginazione, sempre dalla voce di Maria “Ritengo gli animali come delle piccole persone, pure, buone…” le parole di Anna Maria Ortese. Cuce un abito, lucida le scarpe. Le sorelle Pinuccia e Katia la ritroveranno così sul letto di morte, composta, la accompagneranno in una scena suggestiva in cui la bara, dinanzi alla finestra aperta viene raggiunta da un volo di colombe. Pinuccia, questa volta, quando Antonella le comparirà, come sempre per avere anche lei un po’ di rossetto, le pulirà le labbra con un gesto materno, delicato, nuovo.
Il trasloco e la preparazione per il funerale diventano quasi liberatori; i dettagli tecnici, nel salire e scendere del montacarichi creano un movimento diverso che ci rende, da spettatori, finalmente attivi e partecipi. La casa si svuota, i mobili lasciano i segni alle pareti. Qualche colomba gira ancora indisturbata per la casa, mentre le voci della città, l’esterno, accompagnano la scena e riportano al corso della vita, poi ancora una volta alla giornata estiva, ai baci di Maria, alla scena della disgrazia, alle sorelle insieme.
Ci accorgiamo, osservando dal buco rimasto nella parete, dal quale le sorelle Macaluso guardavano l’esterno, che il mare è vicino, molto più vicino di quanto non fosse all’inizio. La natura ha riguadagnato terreno, si è ripresa un pezzo del suo spazio.