Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
Mi sono inoltrata nella lettura dell’ultimo libro di Luca Nicoli, incuriosita dal termine “Tulip”. Ammetto di averle pensate tutte, compresa una nuova sindrome, per poi scoprire che si trattava di una sedia. Una sedia di design particolarmente in uso negli ambienti aziendali.
Ma la Tulip, nel libro di Nicoli, è soprattutto un simbolo della condizione alienante neoliberista. Paragonabile all’oggetto bizzarro, la Tulip è inaffidabile, di bellezza sinistra, che accoglie e respinge nello stesso tempo, e confonde.
Come nella “sedia tulipano”, è facile ribaltarsi !…la metafora scelta da Nicoli è azzeccatissima.
Ribaltare dalla tulip e ribaltare nella vita è quello che succede ad Adelaide Parodi, giovane vice responsabile creativa del settore visual identity di un’agenzia pubblicitaria milanese.
Il libro è una polifonia di contenuti di un certo spessore orchestrata con leggerezza. Originale e struggente, racconta l’intreccio delle vite dei due personaggi principali, l’analista Lamandini e la manager Adelaide Parodi, in un fitto scambio di mail che segnano i capitoli del libro e che danno vita a una sequela di colpi di scena inattesi e vivaci.
Con Adelaide, l’Autore ben delinea il profilo di tante donne in carriera, talentuose e affannate nel giostrarsi quotidianamente tra dinamiche competitive e sessiste. Adelaide si impone con le sue “francesine” e la sua improbabile tazza con la scritta love paris, regalatale dal padre, tempestata di conchigliette, dove le piace sorseggiare il caffè piuttosto che berlo, come fan tutti, in bicchierini di plastica che rischiano di rovesciarsi quando la presa arroventa le dita. Ancora una “Tulip”, un altro riferimento all’instabilità, a quel senso di precarietà che viene accuratamente celato nella contemporaneità da un aplomb aggressiv.
Adelaide è la perfetta descrizione di un femminile solo, nostalgico e diffidente, ma anche dotato di spirito critico e di una certa autonomia di pensiero, che fa sesso ma non si consente di fare l’amore, nascondendo il suo timore di legarsi con un pizzico di spregiudicatezza misto a inermità. Tuttavia un certo prurito al piede, che sopraggiunge tutte le volte che le circostanze si fanno difficili, tradisce lo stress della giovane donna e la induce, nel tempo, a fare una scelta radicale.
Scomparire!
Nicoli ci mostra come, nell’era dell’addiction, delle connessioni, qualcuno può pur riuscire a scomparire. Annullati tutti gli account, eliminate le schede telefoniche, l’individuo del XXI secolo non è’, non c’è più. Adelaide, come Il fu Mattia Pascal, è decisa a iniziare daccapo, a cambiare vita, stavolta a modo suo!
La storia di Adelaide s’intreccia con quella dello psicoanalista Lamandini, descritto da Luca Nicoli con una sincerità non comune, con cui sottolinea, anche con un certo umorismo, le fragilità dell’uomo-analista, fotografando i suoi stati d’animo e i suoi pensieri mentre attende il paziente o durante la seduta, mentre affronta i suoi turbamenti personali e professionali; non ultimo quello che comporta l’essere omosessuale, e l’essere omosessuale all’interno di una società psicoanalitica. Tra le righe sembra di intravedere anche il misurarsi con dinamismi istituzionali di cui la società psicoanalitica non è immune.
Una illustrazione dunque dell’essere psicoanalisti, fedele e coraggiosa quando si fa a meno dell’idealizzazione e della mitizzazione che avvolge la nostra professione. Nicoli, indugia nel descrivere la passione che, quasi come una malìa, coinvolge la vita dello psicoanalista, passione che rischia a volte di incapsularlo nelle vite degli altri, sacrificando i propri legami familiari che, come vedremo nell’epilogo del romanzo, restano in attesa, anche per tutta una vita.
Lamandini è un analista innamorato del suo lavoro, protetto dalle mura della sua stanza d’analisi, dal rapporto con i suoi pazienti che premiano il suo narcisismo. Come non riconoscersi ?!?…
Attraverso le mail Adelaide sembra intraprendere un’analisi personale con lui, un analista (apparentemente) scelto a caso sul web, e da quel momento torna a essere Heidi, come la chiamavano quand’era bambina. Il registro dei dialoghi tra la giovane manager e lo psicoanalista si fa sempre più intenso e simbolico, a volte breve, a volte conflittuale, consequenziale, ma mai giudicante o super egoico. Prende forma una regressione utile al ricordare, proprio come in analisi.
Soprattutto nella terza parte del libro si avverte uno scalino in cui i toni accolgono un dolore composto, maturo, avvenuto, e c’è il peso di una maggiore tenerezza per ciò che ha avuto luogo, irrimediabilmente, ma che è stato anche superato e conservato. E’ qui che si intercetta, ancor più, lo spessore di Nicoli analista, con le sue risposte chiare, autentiche, coraggiose, quelle che danno sollievo all’anima pur restando nel cimento del conflitto, dell’iter del complesso, articolato lavoro analitico dotato di quello assetto insaturo che aiuta a pensare in modo nuovo.
Questa originalità del testo persiste con un ritmo vivace per tutta la narrazione e sul finire del libro dà corpo ad una circostanza che coglie di sorpresa il lettore, e che ribalta (ancora una Tulip) le cose. Tuttavia l’Autore, attraverso un clima empatico, sembra preparare il lettore a uno stato di rèverie con cui può ricevere lo svelamento dei fatti.
In questa raffinata operazione si distingue un impianto narrativo che si sviluppa su più livelli e col registro associativo.
Luca Nicoli affronta temi importanti con delicatezza e gentilezza, (questa sconosciuta!), come quello molto attuale delle famiglie – che non chiamerà mai “arcobaleno”- aggettivo peraltro inappropriato per descrivere la complessità che devono affrontare le coppie genitoriali omosessuali, così come fastidioso risulta il tentativo di edulcorarne la problematicità parafrasando l’arcobaleno che arriva, dopo la tempesta, a colorare il cielo. Disegno simbolico di una “pace”, ben lontana nel libro di Nicoli che piuttosto, senza forzare, descrive ancora una volta con estrema semplicità i turbamenti di una famiglia con “due papà”.
Infine, sullo sfondo si staglia una protagonista d’eccezione: la città di Bologna. Con le sue tradizioni, i suoi portici, le sue torri, le sue biciclette, i tortellini, le canzoni di Guccini, e persino nell’accenno al suo provincialismo, e sembra sentire quell’accento bolognese così gioviale saltar sù dalle pagine e assumere una corporeità.
“Dottore ho una tulip nella testa” è uno di quei libri che porti in borsa aspettando di ritagliarti un attimo di tempo per continuare a leggere. E quando hai finito di leggerlo ti resta nel cuore e ti torna in mente, come i bei film.