“Conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova: ve lo dico dal mio cuore sconosciuto”. Wislawa Szymborska
1) Presentimenti
1 febbraio. Sono a Roma per la giornata sulla ricerca, è tutto come sempre ma nelle strade vedere facce orientali è diverso, molti di loro portano la mascherina, hanno uno sguardo sfuggente che mi sembra colpevole. Ho in mente le scene surreali della città deserta di Wuhan, che mai avrei pensato potesse somigliare alle nostre città. Alla Rinascente, nel reparto dedicato al capodanno cinese, le commesse stavano lì, ferme al centro, a vendere nulla a nessuno, non circolava gente nel reparto addobbato e con sconti speciali, mi sembravano bambole costrette in vetrina, immobili con la loro mascherina. Come istallazioni inquietanti e premonitrici di una realtà in avvicinamento. A ben vedere, in tutto il negozio, non solo in quel reparto, c’è un’aria strana; ho dovuto quasi inseguire una commessa per comprare una crema per il viso. A Roma c’erano già i due primi ricoverati cinesi, ma si diceva e si pensava: non c’è pericolo, sono in ospedale, il virus non circola qui, il virus è in Cina.
Mi è rimasta impressa quella giornata romana, ultima riunione di lavoro normale, la sosta al bar, le chiacchere con i colleghi, seduti vicini a scambiarci impressioni, e poi a passeggiare. Le strade, i negozi, tutto come sempre, eppure aleggiava già un so che; a distanza ho potuto identificare come un presentimento, l’intuizione di un pericolo quasi impercettibilmente presente in un angolo della mente. Tutto si staglia nitido nel mio ricordo, perché? Non era un viaggio come un altro, è stato l’ultimo prima del coronavirus, in qualche modo già il mio inconscio coglieva stimoli da accogliere e rielaborare. Una non paura, un non allarme, un non pericolo, un NON coronavirus già si annunciavano.
2) Dubbi
2 marzo- Partire o no? Rischiare, e che cosa esattamente? il contagio di un virus temibile o la soppressione del volo? Avevo fatto i biglietti per andare a Bologna il 6 marzo, mia figlia mi ha vietato di partire, a Bologna la situazione era più chiara, le cose sono andate via via precipitando, tanti segnali prima deboli poi più insistenti, come in un crescendo. Una paziente mi comunica che il suocero si è contagiato e nell’arco di tre giorni via via i pazienti allarmati hanno disdetto le sedute. Una mi ha mandato un sms con l’hastag: io resto a casa, prima che diventasse slogan. La prima volta, come la parola lockdown, mi ha dato una scossa.
3) Priorità
La cosa a cui ho pensato che fosse veramente indispensabile prima di chiudermi in casa è che dovevo andare a rifornirmi di libri, i libri non possono mancare. L’ultimo acquisto in libreria me lo sono concesso anche se ho fatto frettolosamente e quasi sentendomi in colpa, con tutti quei morti. Mi sono sentita egoista ma anche viva e prudente a pensare al mio bisogno, anche se poi mi è stato detto che si poteva ordinare per telefono oppure online, ma al momento non si sapeva. Ogni azione era importante, significativa, diversa. Gesti, abitudini, da disimparare e da imparare, come fossimo appena nati.
Vedere l’assalto ai supermercati mi ha fatto ricordare l’epoca della guerra del golfo, le stesse scene, scaffali svuotati, l’accumulo di provviste, io non ho avuto questa preoccupazione, che mi mancasse il cibo.
A proposito, la prima domenica del lockdown ho cucinato come sempre la domenica, come se dovessero venire a pranzo i figli e i nipoti, non è venuto nessuno naturalmente, eppure fino all’ultimo ho sperato di potere condividere almeno il cibo, ma non hanno voluto, che rischio ci può essere? Lo penso ancora, mi è sembrato illogico. Ho surgelato, per un pezzo quel cibo cucinato “normalmente” e poi messo in attesa mi faceva pensare a tutte le attese e a tutti i dopo.
Non ho impastato, non ho fatto incetta di niente.
Mi mancavano i bambini, non poterli toccare, vederli solo attraverso schermi, o dal balcone di fronte, già questo è meglio, immaginavo una magia che potesse avvicinare i balconi e farci guardare occhi negli occhi anche senza toccarci; mi mancavano i figli e la figlia lontana ancora più irraggiungibile e a rischio in una regione del Nord, quando ancora noi non ci sentivamo e forse non eravamo, allora, in pericolo, in Sicilia.
Ho cercato lockdown: non conoscevo la parola, mai sentita prima. Anche durante il lockdown sono uscita due volte al giorno, non sono mai rimasta un giorno a casa, uscivo con autocertificazione e a piedi, non ho preso mai la macchina, mi sentivo più giustificata, il percorso da casa mia a casa dei miei è breve e coincide con il percorso da e per lo studio. Ho subito saputo che non potevo abbandonare i miei genitori anche correndo un rischio, all’inizio non c’erano mascherine, molti lavaggi, distanza, abbiamo imparato a non toccarci, niente abbracci e baci, ancora è così, durerà per sempre?
Avevo bisogno di camminare, non tanto per fare movimento fisico ma per pensare, per smaltire ansie e per sentire le emozioni, i miei passi risuonavano nel silenzio, in particolare nel silenzio della sera, le strade vuote e io sola, mi sentivo una privilegiata e una clandestina ma anche vulnerabile. Facevo le stradine buie e non frequentate, mi nascondevo in un certo senso ma anche sceglievo nuove visuali da guardare, per vedere ciò che sfugge di solito. Ciò che prima non avrei visto. Questo ho sentito da subito: non sprecare l’occasione di vivere una esperienza eccezionale che stava comunicando qualcosa di prezioso che non andava perso, che bisognava accettare gli urti di una catastrofe che squarciava un velo, molti veli, e che questi insegnamenti o messaggi erano nelle cose più piccole e più quotidiane, nella comune banalità del vivere.
Come a dire: che cosa importa davvero? A che cosa non posso/voglio rinunciare per la mia sopravvivenza? E per quella di tutti?
Come in tutti i momenti difficili della mia vita ho cercato i fiori. Un rito quotidiano si è costruito quasi a mia insaputa. Una sera, passando dal giardino, da lontano ho visto il bianco di una corolla e mi sono avvicinata, da quel momento ogni sera andavo a vedere se erano fiorite le calle e, se c’erano, le portavo via con me, le portavo tra le braccia come preziosi talismani, le mettevo in vaso, cambiavo l’acqua, le guardavo, ne avevo bisogno. Creature viventi che fiorivano per me e mi davano serenità e speranza…
Oppure cercavo il mare. Da casa lo vedo, uno Stretto cosi vuoto, mai visto prima, è strano non avere davanti il consueto passaggio di navi, di barche, di traghetti, lo scenario tanto familiare e tipico; non importa, perché in compenso i colori sono smaglianti, come un fotoshop della natura ripulita, e anche gli odori, non più mischiati o contaminati, si distinguono e si apprezzano, penetrano dentro. Devo avvicinarmi di più per vedere il mare e sentirne l’odore, provare la brezza, anche se per questo devio dal mio percorso. Serve a contrastare dagli occhi e dalla mente le immagini dei morti, dei moribondi, degli ospedali e delle bare, dei medici e degli infermieri con le loro tute che mi fanno ricordare i reportage sull’Ebola, epidemia lontana, estranea alla nostra civiltà, si è creduto. Dunque mi distacco, mi consolo con la bellezza, ma non voglio rimuovere, non voglio dimenticare, ho bisogno di antidoti alla morte, alla tragedia, non per negarle ma per poterle tenere accanto a me, tra le braccia insieme ai fiori.