Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
“Qual’è stata la fonte originaria della nostra immaginazione ieri e qual’è oggi?”
Con questa domanda si apre l’interessante dialogo sul cinema che “fa paura”. Dialogo che intende analizzare non solo e non tanto i classici della filmografia horror quanto soffermarsi “sulle trasformazioni della poetica di questo genere cinematografico per cogliere cosa questa poetica riveli – attraverso il suo “inconscio ottico”(Benjamin,1935) – delle vicende umane contemporanee, sulla loro attuale problematicità e tragicità “(pg XII).
L’ottica proposta da Angelo Moroni nel suo ultimo libro “Una porta nel buio” infatti, si inoltra sulla funzione del cinema horror che si fa carico della rappresentazione delle angosce collettive e individuali.
Come sempre chiara e avvincente la scrittura di Moroni, avvia un pensare sfaccettato e complesso sulla condizione dell’Umano così deprivato dall’Essere – nella quale mi ritrovo ad ogni lettura dei suoi libri. Nella società contemporanea assaltata dalla “colonizzazione algorirmica”(Benasayag,2024), l’individuo sperimenta una dipendenza perversa dai dispositivi digitali che molto spesso risucchiano lentamente l’essenza di Sè, “il senso dell’Essere Umano” – dice Angelo. Il suo limite, la sua profondità, e svanisce il suo “Nome”.
L’epoca del massimo sviluppo tecnologico, dell’avvento dell’Intelligenza Artificiale, in realtà precipita in quella che Bollas definisce “epoca dello smarrimento”(2018).
Mi viene in mente un dialogo che mi è stato raccontato da un’amica pediatra che, chiedendo alla sua paziente adolescente cosa avrebbe voluto fare durante l’estate, si è sentita rispondere “respirare”.
“Respirare” come sinonimo della necessità di sopravvivere allo spossessamento di Sè operato da un sistema sociale che maniacalizza i suoi “figli”, espropriandoli da se stessi.
L’analisi dell’Autore – quanto mai attuale – coniuga dunque il cinema horror con un’attenta analisi delle criticità in cui versa la contemporaneità e come queste abbiano una ricaduta intrapsichica.
Ecco che – afferma Moroni – Il cinema horror rappresenta “ la crisi e lo smarrimento in cui l’uomo moderno si trova a vivere”.
E ancora, il film horror calandosi “nell’abisso delle angosce umani e sociali che l’uomo vive in una determinata epoca storica” al contempo le descrive per quella straordinaria e un po’ magica funzione che caratterizza il cinema, e che diventa, a volte, non mera visione di immagini più o meno artistiche, bensì “racconto cinematografico” della condizione dell’umano. Abbiamo visto come a volte, anche senza che il regista ne abbia contezza, riesca a rappresentare “cose” che intercetta a livello inconscio o dà forma ad un inconscio extratopico, diventando un “fenomeno interpsichico”(Bolognini,2008).
Il cinema horror tenta dunque di rappresentare il trauma e, nello stesso tempo, assume quella funzione eccitatoria che serve a scappare quando ci si trova tèt a tèt con la paura del vuoto o con “la brutalità delle cose”(Preta.2015). In questo senso esso si colloca come “cinema perturbante” nella misura in cui, dando vita ai “nostri fantasmi”, li fa diventare inquietantemente familiari, pur ( e proprio in virtù di questo) mantenendone l’oscurità e il senso d’ambiguità. Afferma Moroni che Il “lavoro di raffigurabilità” proprio del linguaggio cinematografico da vita al contempo ad un angoscia rappresentabile e condivisa quindi più gestibile.
Il cinema, inteso come “oggetto evocativo”, e in particolare quello horror, mettendo in scena storie “inimmaginabili” per la loro spietatezza e in-quietanza, metaforicamente intesa nel suo significato etimologico, mette in contatto con impulsi primitivi incontrollati e inascoltati poichè la loro efferatezza o la spaesante incongruità mobilita il caos interno rendendolo visibile, e dunque possibile, e ripropone la condizione perturbante laddove, secondo la tesi freudiana, “tutto ciò che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, invece è affiorato”(Freud.1919)
Come nel film “Dhamer. Mostro: la storia di Jeffrey Dahmer”(2022)
Narrazioni delle tempeste emotive più devastanti che abitano l’individuo quando trasbordano in maniera disorganizzante. O “The Grey”(2012) in cui si occhieggia una storia che “metaforicamente è anche la nostra”, dice Moroni, storia laddove indefettibilmente non c’è spazio per l’illusione e tutto appare spietatamente crudele quando non c’è alcuna “possibilità”. Per non parlare del film “The Returned”(2013), il cui clima apocalittico rievoca la vicinanza con l’esperienza recente della pandemia, in un rimando veramente perturbante. Mi sorprendo ad associare col bel libro di Josè Saramago, “Cecità” che descrive un’epidemia che rende tutti, uomini e donne, bambini e anziani, e persino gli animali, ciechi. Straordinaria metafora prognostica della condizione perturbante a cui siamo costantemente sottoposti. Ciechi e alienati.
L’operazione di rendere “conscio l’inconscio” – dice Moroni – comporta “fare” un’opera d’arte. In questo senso lo psicoanalista è (quando ci riesce) un po’ anche artista.
Un tema particolarmente interessante e su cui mi ritrovo tout cour con la ricerca di Moroni è quello dell’ “inconscio ottico” così da lui ben argomentato nella descrizione del pensiero di Rosalind Krauss e Walter Benjamin.
“Il mondo dei fenomeni visivi – si chiede la Krauss – le nuvole, il mare, il cielo, la foresta …possiede un inconscio ?”
Ringrazio Angelo per avermi riportato sulle tracce di quello che altrove (Da Dietro. Alcune considerazioni sull’immagine.2019) ho definito l’”inconscio dell’immagine” nella considerazione che anche i luoghi hanno un inconscio, un “aurea” (per dirla con Benjamin) che raccoglie la storicità del luogo, e il senso del “tragico” – inteso in senso greco – che lo contraddistingue nella sua unicità . E ancora una volta Moroni nel suo approfondimento puntuale e colto, descrive come i lapsus, verbali e di scrittura, gli atti mancati, o le sbadataggini rimandino a tutte quelle “sviste in ambito visivo” – sovraimpressioni, sfocature, deformazioni, sovraesposizioni, ecc – “elementi fortuiti e imprevedibili (che) costituivano, di fatto, la componente essenziale (dell’oggetto)”. Moroni accosta il frottage (“tecnica che esclude ogni guida mentale cosciente”) ai sogni non sognati di Ogden, quei sogni che segnalano “il sognatore che si nasconde nei sogni”. Sogni che incorporano “segni” del Perturbante, di ció che non può palesarsi nella realtà a causa della sua estrema bellezza o per la sua estrema mostruosità, è ciò che non si puó vedere o che, per poterlo vedere, dev’essere camuffato. A cominciare da quel “senso dell’orrore” chiuso tra colpa e persecutorietà (Sonnino.2024)vissuta dall’individuo, nei secula seculorum, al cospetto dell’olocausto, per continuare col disagio contemporaneo che vive l’uomo – “cifra del suo Perturbante” – e che prende forma attraverso quelle espressioni d’arte d’avanguardia (Cubismo, Dadaismo, Surrealismo, Impressionismo). In questa direzione và l’interessante proposta di Moroni di una psicocriticità cinematografica che “risognando il film di cui parla, apre nuovi mondi inconsci, nuovi versanti e vertici dell’immaginario ottico-inconscio su cui si posa ogni produzione filmica”.
Alla luce di tutto ciò è evocativo e affascinante il concetto espresso dall’Autore dei “nuovi mondi nascosti nella filigrana della pellicola cinematografica”.
Moroni, estendendo la sua disamina, analizza magistralmente i “procedimenti inconsci” che sottendono l’immagine che si fa carico del materiale intrapsichico e, allo stesso tempo, lo palesa. Plana agile su Merlau-Ponty e la sua tesi sui collegamenti col corpo e la corporeità per poi, con un gigantesco volo, atterrare sul mito di Dioniso quale “ capacità di accogliere la vita anche nelle forme di una sua irruzione traumatica e angosciante”. Questa raffinata disamina “riguarda, più profondamente di quanto sembri a prima vista, il tema filosofico e insieme psicoanalitico del dionisiaco”. E collegando il dionisiaco al perturbante dirà: “ Dioniso e le sue rappresentazioni nella cultura antica simboleggiano il perturbante in quanto tale”.
Durante la proiezione di un film horror, il dionisiaco “irrompe”, “buca lo schermo”, “richiama al tema dell’abisso nietzschiano” che si fa apertura a nuove e sconosciute potenzialità se si è disposti ad abbandonare, anche solo per un po’, lo stato d’equilibrio e passare a quello di perturbazione. Apprezzabile il rimando di Moroni alla “memoria del disequilibrio”, una sorta di memoires di ricordi – dimenticati – per il rischio che riaffiori , spaventosamente, quell’assenza di equilibrio che può assalirci e assillarci in taluni momenti critici della nostra vita. Eppure sta proprio là, in quell’area confusa e tormentosa, in quei luoghi desertificati e persi, che si può re incontrare l’umano, e ingaggiare la sua componente creativa, vitale e trasformativa.
È dalla toccante condizione dell’abisso dell’uomo che si dovrebbe – con abilità funambolica – ripartire. E del resto, oggi più che mai, non resta che intraprendere, fiduciosamente e con slancio, questo cammino se si vuole combattere l’alimentazione esistenziale da cui siamo ormai, più o meno tutti, dipendenti. Come se gli andassimo incontro a braccia aperte.
Ed è in questa direzione che Moroni conclude il suo bel libro. Arricchita da una serie di interrogativi, si chiede e ci chiede se come psicoanalisti dovremmo aggiornare i nostri strumenti con altri “più vicini a descrivere e a rispecchiare l’esperienza dell’umano come oggi la viviamo(…)un’esperienza vista anche nelle sue declinazioni sociali e politiche, nonché come violenza delle emozioni o come immanenza arcaica dell’abiezione”.
Le parole di Moroni invitano a chiederci se stiamo dimenticando qualcosa, se stiamo indugiando in una visione “comoda” della cosa, relegata alla risoluzione edipica e nel frattempo trascuriamo “il bisogno di un riconoscimento di un collettivo, di un gruppale anti-sovranistico della struttura dell’Essere umano”.