Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
A Maggio ricevo in regalo da Donatella il suo libro. Me ne aveva già parlato a Dicembre quando ancora non lo sapevamo che avremmo condiviso la stessa “sorte”. Quando la sua figlia maggiore contrasse il virus, appunto durante le festività, in uno scambio di auguri lo raccontò e non potendo pensare che la famiglia fosse divisa in tante stanze e che così avrebbe trascorso la fine dell’anno, decisi di “partecipare” preparando loro dei dolcetti. Lasciai il vassoio all’esterno della sua porta di casa, ci vedemmo da lontano e con le mascherine. Insomma tutto nella regola.
Malauguratamente due giorni dopo la mia consegna scoprì di essere positiva. Ovviamente tra le persone avvisate ci fu Donatella. La prima cosa che le scrissi nel messaggio, che composi e cancellai numerose volte, fu: “scusami ma sono positiva e mi dispiace perché ti ho portato i dolci”. Ciò che ho temuto è che in qualche modo lei potesse pensare che anche quei dolcetti potessero essere fonte di contagio, che “fossero contagiosi”. Ma io stessa mi risposi e le scrissi: “ovviamente sono cotti nel forno quindi qualsiasi cosa il calore ha distrutto tutto”. Donatella mi rassicurò che non solo i dolcetti erano stati di loro gusto ma che era certa non sarebbero stati fonte di alcun contagio da parte mia. La mia preoccupazione già a me illogica, mi diede spunto per riflettere su cosa io stessi provando, sui tanti risvolti che l’essere contagiati provoca nella mente.
E da quel mio contagio anche le mie buttigghi scattiaru!
Questo breve racconto di amicizia ho pensato di farlo perché qualcosa che risaltò nella dinamica del contagio in qual caso fu la “vergogna”. Le raccontai le mie riflessioni e su questo tema subito iniziammo a scriverci e a porre l’accento a qualche idea da sviluppare. Questo l’ho ritrovato nel passaggio quando riflette sulla condizione dell’isolamento prolungato che “umilia, mortifica e destruttura” che tu sia il contagiato o sia il contagiabile.
A proposito dell’inconscio a cui lei fa riferimento e che ribalta le domande in accuse: sarà stata la mia onnipotenza a temere che io potessi contagiarli?
Ho trovato molto interessante e stimolante le domande che si è posta sulla “sporcizia” e sulla “miseria”, sulla visione della “colpa”, dell’aver peccato e dell’essere peccatore e quanto questo passaggio appartiene ad un pensare insito in noi e ce ne accorgiamo solo se ci si pensa.
Leggendo le prime righe del capitolo XII, leggo le tante “F” che indicano le sigle delle mascherine e penso alla “fifa” modo siciliano per indicare la paura: mai nessuna lettera fu più indicata per “chiamare” quell’oggetto che dalla paura ci doveva proteggere. Ci vuole “Tempo” anche per superare tutto quello che ha coinvolto e sconvolto le menti e le vite, ci vuole quel tempo a cui fa riferimento nel richiamare i suggerimenti dati dalla “Doc”, quel tempo che serve a superare le offese, a “sopravvivere alle offese” perché forse è vero, siamo offesi, offesi con i corpi che si ammalano, offesi con la libertà tolta, offesi con chi non rispetta le regola, offesi con chi è morto. Si è scissi: buoni e cattivi, sani e malati, vaccinati e no vax, bianchi e neri, vero e falso e ti domandi se il virus è vero come è vera la guerra, quella che è dietro la porta di casa e che non può essere negata.
E’ stato un bel modo, quello dell’autrice, di raccontare e di raccontarsi nel modo di sentire entrambe le esperienze, quella del Covid come parte attiva e quella della guerra e come cio le ha permesso di aprirsi a dei pensieri anche impensabili -“il covid mette alla prova la devozione materna”-, ma che nella loro impensabilità hanno onestà e profondità.
Mi sono ritrovata in tante delle sue riflessioni sul Covid quanto sulla guerra eventi che hanno dato un senso di tragica continuità. Come sempre ho apprezzato la generosità ed onestà nella descrizione delle sue dinamiche interne, il mettersi in gioco, regalandoci i suoi sogni ma come spunto di una riflessione che in un modo o nell’altro ha coinvolto tutti.
L’occhio vigile attento, l’orecchio volto all’ascolto anche del non detto ed anche nella distanza, come in un caleidoscopio che quando si ruota con i tanti colori e forme offre la possibilità di osservare le cose in modi diversi ma sempre reali.