Centro Psicoanalitico dello Stretto Francesco Siracusano
Sul film di Paola Cortellesi è stato scritto molto e tanto inerente al tema principale trattato nel film.
Le mie sono delle riflessioni nate immediatamente dopo la visione dell’opera, e che sono state arricchite da altre suggestioni man mano che sedimentava dentro di me.
Sono rimasta immediatamente colpita dall’incipit con il quale inizia il film: i gesti compiuti da Delia già al risveglio sono un chiaro riferimento a Cenerentola che come si vede nel famoso lungometraggio, trova il topolino nella pantofola, si veste dietro il paravento lanciando con leggerezza la camicia da notte su uno dei lati di questo, che sciacqua il viso nel catino, che annoda il grembiule e che apre le finestre canticchiando, ma a differenza di Cenerentola ciò che arriva a Delia non è l’aria fresca delle prime ore del mattino, ma la polvere del cortile e già questo porta lo spettatore a “destarsi” dalla atmosfera disneyriana, per calarsi nella realtà polverosa in cui vive questa donna, che non abita in un castello, bensì in un sottoscala, che non ha a che fare con sorellastre invidiose della sua bellezza, ma con vicine altrettante invidiose. È risaputo come già nelle fiabe il ruolo della donna fosse inserito in quello schema di donna casalinga, obbligata all’interno di un ruolo determinato, che seppur il tutto appariva fatto senza fatica, nella realtà la fatica esiste. E meno male che le nuove generazioni di bambine possono “danzare” e scegliere se essere Cenerentola o Merida che tutto vuol fare eccetto che essere la figlia obbligata ai doveri “che si confanno ad una principessa”, che desiderava interrompere l’ineluttabilità del suo destino. Con il suo essere ribelle Merida rompe gli schemi patriarcali, costringendo la madre ad assistere ad un modello filiale diverso da lei.
Ho trovato alcuni spunti narrativi espressi con delicatezza e genialità: lo spettatore non assiste mai alla violenza degli schiaffi o dei punti che la povera Delia doveva, suo malgrado, accettare da Ivano, assiste invece a delle scene in cui tutto ciò viene descritto sotto forma di danze che s’intrecciano dal tango, al valzer, al twist, e ciò mi ha fatto riflettere su come alle volte la violenza é davvero “la danza” all’interno della quale si muove una malsana relazione di coppia passando dagli abbracci alle botte con la maestria di due etoile. La violenza che diventa la forma distorta della comunicazione. L’aver in qualche modo usato diversi tipi di danze inquadrabili in altrettante epoche diverse, potrebbe essere la rappresentazione di come la cultura patriarcale violenta e maschilista non ha avuto epoche in cui si è espressa, perché si è espressa e si esprime in tutte le epoche.
La donna viene raccontata come colei che tiene le fila della famiglia sempre, anche quando le sue azioni, i suoi intenti non vengano accolti e compresi dai figli, ed in questo caso dalla figlia, che vorrebbe vedere una madre più “femmina” che non subisca i tradimenti del marito ma che si opponga a questi, più decisa, più risoluta, che possa affrontare il marito senza subirne gli sguardi mortificanti ed i colpi poi dolenti; una madre che non accetti i lividi.
Il tema che ho trovato essere commovente é questo rapporto nel femminile, la relazione tra madre e figlia. La madre che fulminata da un’intuizione, interrompe quella che sarebbe stata una traccia transgenerazionale nella vita della figlia, che avrebbe spostato un uomo, al momento ancora ragazzo, con il quale avrebbe ripetuto la stessa relazione genitoriale. Avrebbe ricostruito lo stesso modello familiare. La ragazza troppo giovane per accorgersene, lei troppo grande per non vedere.
Ecco la trovata geniale: Delia salva la figlia facendo esplodere il bar con la complicità dell’americano al quale lei ridiede la foto smarrita in cui era ritratta la sua famiglia.
Le parole usate dal soldato nel descrivere la sua famiglia, sono parole ricche di tenerezza e commozione che lasciano lo spazio a pensare che ci possano essere anche altri modelli familiari, incentrati sull’amore e, per chi é lontano, sulla nostalgia. La foto restituita al soldato, non è solo quell’unica rappresentazione dell’oggetto buono attraverso il quale egli possa permettersi di riconnettersi con qualcosa di sano che non fosse la guerra, ma è anche la possibilità che possa esserci la rappresentazione di una famiglia diversa da quella creata da Ivano e Delia e ancor prima dal padre di Ivano e dalla moglie defunta.
Un po’ come nei quadri di Escher: un uomo che guarda se stesso riflesso dentro una sfera di vetro che guarda un uomo…e potremmo andare così all’infinito.
Solo quell’esplosione può cambiare le sorti di tutto: “meglio povera in canna, che benestante infelice”.
Solo quell’esplosione può interrompere quel rispecchiamento in un modello senza soluzione di continuità. Ma questo solo una madre lo comprende e lo riesce a fare, perché lo avverte da piccoli gesti, dagli sguardi, lo comprende da quelle percezioni che solo chi sa creare una buona relazione sa cogliere. Alla figura di Delia ed allo schema della coppia Delia ed Ivano, si contrappone quella dell’amica che ha un marito, per l’epoca, permissivo e rispettoso. L’amica, che comprendendo la sofferenza di Delia, cerca di coinvolgerla in momenti di leggerezza che si articolano nell’invitarla a fare le marmellate o a fumare una sigaretta nascoste in una angolo della strada, scambiando così momenti di pura complice serenità. In fondo chissà se Delia opta per la condivisione di quella sigaretta fumata di nascosto nel vicolo e non qualcosa che comunque è sempre un rimando al ruolo di casalinga. Quell’amica per Delia è il porto sicuro. È la possibilità di poter incontrare una vita diversa, di regalarsi uno spaccato di comprensione e di appoggio all’interno di una quotidianità scandita dai doveri e dalle botte. È un’amica che porta in se un segreto: è sterile. Commovente la scena di quando mentre mangia un cono gelato seduta vicino al marito, le passa accanto una donna incinta, lei la guarda con tenera tristezza, quella di chi non potrà realizzare il desiderio, ed ecco che il marito intercetta lo sguardo della moglie, ne comprende la sofferenza e la stringe a se.
Altolà -mi sono detta-, anche io donna di questo tempo, sono caduta nella maglia che chi è sterile è la donna e non l’uomo, che “l’errore” sia nella donna e non nell’uomo. Come se lo stereotipo che sono le donne le fragili, sia in qualche modo e da qualche parte ancora radicato. È un’opera che prima di tutto dobbiamo effettuare noi stesse.
In questa coppia in fondo l’uomo è fatto salvo, l’uomo non è solo Ivano, c’è anche un altro modello di maschile da poter guardare, c’è un maschile sensibile, che non rifiuta una donna che forse, chissà, non può dargli un figlio, c’è un maschile che sa comprendere ed amare senza riserve; c’è una coppia complice ed unita.
L’equivoco giocato sulla fuga d’amore con il vecchio e vero amore della vita di Delia, è ciò che rassicura lo spettatore che finalmente pensa che questa donna possa avere la sua rivincita sulla vita: la nostra Cenerentola finalmente incontra il suo Principe Azzurro che può portarla via, come se questo paradigma che l’uomo salvi la donna, diventi in qualche modo la risoluzione di tutto, la salvezza. La vera rivincita, la salvezza è poter ottenere quella libertà che possa aiutare ad attuare il cambiamento ciò che, fino ad allora, era ad appannaggio di un mondo maschile. È dall’incontro degli sguardi tra Delia e la figlia che si gioca la potenza del film. È quello sguardo che rende intenso e profondo il reale legame tra le due; è dentro quello scambio di sguardi che la ragazza coglie a cosa sia valso il sacrificio della madre: a renderla una futura donna libera e colta; Delia aveva raccolto del danaro dai suoi lavori per poter comprare l’abito da sposa alla figlia così da non farle riattare quello che era stato il suo. Questo sembra anche un messaggio che i figli possano indossare abiti diversi da quelli indossati dai genitori, che questa figlia possa, nel cuore della madre, non essere quella sposa che la madre è stata costretta ad essere.
Ed ancora il coro muto; il coro che le donne cantano, e che, seppur con “la bocca chiusa”, il coro si fa “sentire”. Le bocche non vogliono più restare chiuse, scelgono di poter dire. Ecco cosa deve fare una madre: insegnare ad una figlia che ciò che davvero importa è non stare a bocca chiusa, non restare ad attendere, ma “mettere le bombe” e poter correre verso la libertà anche lasciandosi dietro la possibilità di poter riattualizzare un passato che sarebbe potuto essere la salvezza.